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CONTRO
QUEL MURO
Qualcosa bisognerà pur scrivere ora che ho finito, ora che
ho sistemato l’ultima foto. Ci siamo guardati in faccia per
mesi, io qui coi negativi e loro sempre là contro quel muro,
davanti a Leo che neanche gli diceva di sorridere. Ma cosa scrivere?
Penso al titolo di un libro di Pontiggia Vite di uomini non illustri,
magari potrei… No, meglio di no, non ho altre storie da raccontare,
mi dico per convincermi a tagliar corto. E poi, i più non so
neanche chi siano. Forse ci siamo sfiorati, ma non ricordo né
dove né quando. Ora ci conosciamo, ma solo di vista. Ci frequentiamo:
li sposto, li cambio di pagina, questo va qui, questo invece…
Qualcuno poi ritornerà nell’ombra, forse per sempre...
Mi spiace, come perdere un amico.
Li guardo: non c’è allegria, neanche finzione. E’
tutto naturale, una normalità che ti spiazza e ti confonde.
Non siamo più abituati, abbiamo perso lo sguardo innocente,
la televisione ci ha fregati… Ora solo effetti speciali e superlativi
assoluti. Tutto al massimo.
Qui nessuno finge, niente trucchi, ognuno si porta dietro la vita
di tutti i giorni, non sembra neanche festa: ognuno è quello
che è davanti a quel muro. Hanno mani callose e gesti semplici,
impacciati, una mal celata timidezza… Pare di sentire le loro
voci. Fissano l’obiettivo senza vedere, hanno altri pensieri.
Rivedo la stessa espressione dei personaggi dipinti da Hopper, sorpresi
nei bar o in disadorne camere d’albergo. Sguardi persidi chi
vorrebbe essere da un’altra parte.
“Di studio non ne ho mai avuto io. Facevo le tessere ma le facevo
fuori. Fuori contro un muro… basta che ci fosse lo sfondo bianco.
Ma senza ritocco, senza niente li facevo io, capisce? Quindi venivano
naturali, com’erano”. Questo è Leo che parla, breve
stralcio da un’intervista rilasciata a Sergio Novelli e pubblicata
dall’Istituto per la Storia della Resistenza nell’82.
Se lo cercavi Leo lo trovavi dove finisce Ovada: dopo via Roma pigliavi
la scalinata e lui era lì. Trattoria della Pace, diceva
la scritta in alto e quel signore col grembiule appoggiato alla balaustra
a guardare chi scendeva dalla littorina e attraversava la piazza o
chi faceva benzina per poi imboccare il ponte con la premura di andare,
era lui, Leo Pola il fotografo.
Leo me lo immagino mentre accarezza la macchina fotografica e sistema
le sue cose nell’ora morta tra il pranzo e la cena o la sera
sul tardi, quando gli ultimi hanno dato la buonanotte e le sedie sono
state rivoltate sui tavoli intanto che si asciuga il pavimento. Anche
oggi è andata, pensa togliendosi il grembiule.
E’ per la tessera?, chiedeva. Se dicevi di sì Leo, senza
parlare, ti indicava il muro appena fuori della trattoria e dipendeva
poi da te il trovare un motivo per sorridere.
Le fototessere hanno la faccia triste della burocrazia. Le fai perché
le devi fare, ma non c’è gusto. Sai già la fine
che faranno: un timbro, carte in bollo, pile di pratiche inevase…
Andranno ad appassire in portafogli sgualciti e prenderanno l’odore
dei soldi e dei conti da saldare.
Se invece volevi qualcosa di speciale era meglio andare lontano dai
pasti, quando si era tolto il grembiule e aveva più tempo da
dedicarti. Anduma lä che le meiu, diceva col braccio teso a segnare
dietro la stazionetta, dove lo sfondo già alludeva, i fiumi
che si incontrano: l’Orba e lo Stura, dopo tanto correre a cercarsi,
finalmente si abbracciano per continuare insieme e… Per chi
voleva capire, ce n’era d’avanzo.
Per la fototessera quel muro bastava, lì contro ti sentivi
già colpevole prima ancora di avere commesso il fatto. Era
poi inutile dire: le assicuro che sono meglio di quello che sembro,
dovrebbe conoscermi, frequentiamoci e vedrà che… Parole
al vento, non c’è niente da fare: sei quello che sei,
tale e quale. Resti per sempre quello della fotografia per colpa del
muro, dell’arrosto nel forno, dell’acqua sul fuoco, del
sole che non è mai quello giusto, del se venivi prima veniva
meglio… e per colpa di quello che sta sulla porta mezzo dentro
e mezzo fuori, gli mette premura e senti Leo che dice: aura a
mandu veia quelchì e a vegnu.
Mario
Canepa