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Memorie dell'Accademia Urbense


Elisabetta Farinetti, Egidia Pastorino, Gigi Vacca, "Na quintula", le immagini e la memoria, Memorie dell'Accademia Urbense (nuova serie) n. 49, Ovada 2002, 250 pp.

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Dalla Premessa a pag. 11:

L’idea di questo libro è nata all’inizio degli anni novanta quando dai cassetti degli Orsaresi sono emerse fotografie e memorie che mi hanno permesso di allestire la prima delle mie mostre fotografiche: da allora la ricerca è continuata e con la collaborazione di tutti e l’impegno condiviso con gli amici Egidia Pastorino e Gigi Vacca il progetto del libro si è finalmente materializzato.
Le fotografie, i documenti e le memorie si riferiscono ad un arco di tempo che va dalla seconda metà del 1800 ed arriva agli anni ’60: sono quasi “a memoria d’uomo”. Qualche personaggio o vicenda di cui si parla non sono stati conosciuti direttamente dagli autori che, però, ne hanno sentito favoleggiare da genitori o nonni.
E’ stata rievocata un’Orsara arcaica, dalle strade selciate o polverose percorse dai carri trainati dai buoi, dalle afose giornate e dalle interminabili notti in cui la quiete era rotta soltanto dallo stridere delle cicale e dal verso ossessivo dei grilli, dai lunghi inverni ovattati e silenziosi in cui solo i camini fumanti evocavano la vita; un’Orsara che si vestiva a festa nelle ricorrenze religiose ma che conosceva soprattutto il lavoro solitario dei campi non sempre ripagato da un adeguato raccolto. I figli erano tanti e le donne, pur votate alla cura della famiglia, aiutavano gli uomini nei lavori agricoli ed invecchiavano precocemente, come, d’altronde, i loro mariti che spesso dovevano lasciare le loro terre per andare a combattere in qualche guerra.
Raccontiamo un’Orsara che è viva soltanto nella memoria di pochi. Eppure in quell’Orsara che oggi appare oleografica come una cartolina sbiadita, tante vite si sono consumate. Alcuni, non offrendo la terra sufficiente sostentamento, sono stati costretti ad emigrare, lasciando famiglia ed affetti e il più delle volte, quando si sono spinti fino alle Americhe, non sono più tornati. Forse a molti è difficile credere che i nostri possano essere accomunati a quelle masse di uomini privi di speranza che arrivano in Europa a cercare una prospettiva di vita, eppure l’emigrazione è stata una dolorosa risorsa di tanti italiani poveri. L’emigrazione di massa degli italiani iniziò intorno al 1870 ed ogni anno erano più di centomila a lasciare il proprio paese: gli Orsaresi si orientarono per lo più verso l’Argentina, qualcuno verso gli Stati Uniti.
Talora hanno fatto fortuna, ma in tutti è rimasto vivo il ricordo e la nostalgia della loro terra. So di certuni che hanno continuato a parlare il dialetto in famiglia per cui ci sono dei giovani argentini che ignorano l’italiano ma parlano l’orsarese. A queste persone abbiamo pensato scrivendo, a chi non c’è più e a chi è sopravvissuto e vuole ricordare un mondo amato e perduto. E abbiamo pensato anche a coloro che conoscono il mondo soltanto attraverso un magico schermo che omologa culture e civiltà: vorremmo contribuire a farli prendere coscienza delle proprie radici perché, proprio in un periodo come quello in cui viviamo, che ci vede proiettati in una dimensione europea, è più importante che mai conservare la propria identità: anche una cultura contadina come la nostra, ha una sua dignità nel contesto di tutte le altre culture.
Qualcuno, sedotto dal progresso e dagli agi che esso ha comportato, potrebbe pensare che un passato di indigenza e sofferenze sia qualcosa da rimuovere e da dimenticare. Sarebbe un grave errore, oltre che una manchevolezza nei confronti di chi ci ha preceduto perché – e prendo a prestito il titolo di un libro di Carlo Levi del 1956 - “il futuro ha un cuore antico”!


Elisabetta Farinetti