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CRONISTA DI BIANCA E DI NERA
Una storia senza fate, senza dei, senza demoni e senza angeli, senza
vittime e carnefici non sa di niente. Tutti abbiamo preferito nella
Commedia l’Inferno al Paradiso. Le storie nascono solo quando
qualcuno sale sulla nave dei folli, la donna si scopre malafemmina,
l’uomo diventa bandito quando la passione, lungi dal temperarsi
in quieta e serena pacificazione, diventa bruciante e distruttiva.
Se non altro perché poi arrivano rimorsi e sensi di colpa a
dare significato a vite altrimenti vuote e fangose.
Per le storie che in questo senso sanno di qualcosa esiste un grande
baule inesplorato che dorme negli archivi anziché nelle soffitte:
sono i documenti d’epoca, i verbali dei processi, le visite
pastorali e - dall’Ottocento - le cronache dei giornali, soprattutto
quelli di provincia, dove giacciono silenziosi i nostri grandi fratelli
immobili: nobili monsignori che erano serial-killer e sono rimasti
impuniti, Medee di campagna, oppure gente cattiva, cornuta, crudele,
magari solo volgare o meschina, che ha bruciato la propria esistenza
nell’attimo in cui ha infranto la legge salendo agli onori della
cronaca nera, pirandellianamente fissata in quel gesto, marchiata
come untore che mette a repentaglio la tranquilla vita borghese del
borgo alla quale ha dato, per un attimo una scossa, un frisson
di quelli che tranquillizzano perché fanno sentire bene in
quanto estranei al male che vediamo concretizzarsi in altro da noi.
Poi, dopo un tempo che la giustizia può impegnarsi, spesso
riuscendovi, ad allungare ma non può rendere eterno, quegli
uomini e quelle donne si inabissano come tutto nel marecartaceo dell’oblio.
In paritaria compagnia con quei tanti che i giornali hanno sfiorato
registrandone nozze e decessi, piccoli incidenti domestici, allegre
comunioni, anniversari di matrimoni, involontari sketch on the
road che sono poi il pane del cronista di bianca.
Che fine hanno fatto decine, centinaia di piccoli omicidi, di meschini
rapinatori, di mediocri stupratori che hanno dato, per qualche tempo,
fiato alle pagine bianco nere dei fogli di provincia?
La letteratura, invece, allunga la vita, la vita degli eroi, ma anche
quella degli sbandati, dei déraciné, degli
untorelli di quanti, per sorte, capitano sotto lo sguardo famelico
di scrittori curiosi.
Ne sanno qualcosa Honoré de Balzac, Leonardo Sciascia e Andrea
Camilleri che hanno pescato a piene mani in quel mare da cui sono
uscite storie che sono ancora vive e fresche, come nuove.
Ne sapeva qualcosa, per inciso, Henri Beyle Stendhal, il quale fece
copiare negli archivi del Vaticano quattordici volumi in folio
dai manoscritti di decine di processi celebri e di avventure scandalose
della corte papale e d’Italia, raccolta in parte sfruttata dall’autore
per le sue storie italiane, ma ancora ricca di spunti tanto che qualcuno
cercò dopo la morte dell’autore della Certosa di
Parma di venderla ad Alessandro Dumas, il quale, riferisce Sciascia,
la rifiutò sdegnoso, forse dicendo “Quando ho bisogno
di una cronaca italiana me la invento”.
Ne sa qualcosa Ceronetti, che ha appena dato alle stampe La vera
storia di Rosa Vercesi e della sua amica Vittoria.
Ne sa qualcosa Mario Canepa, autore di queste StorieStorte,
romanzo, saggio di sociologia o di storia minore, testo corale, occasionato
da un proverbio e dilatatosi in affresco collettivo in cui, a tratti,
il privato autobiografico dell’autore si intreccia - non si
irriti l’autore per il complimento, saràl’unico
- con rara sapienza scrittoria alla trama fitta eppure ortogonale
dei mille fatti e avvenimenti che la sua Ovada ha visto scorrere nel
torrente mutante della sua lunga umana commedia.
L’asse temporale lungo il quale si snodano quelle vicende è
come la traccia del sismografo: il passato remoto scavalca i secoli
e balza invadente nell’oggi, trascinandosi appresso medaglioni
di passato recente e tra flash-back, rimandi, andate, ritorni e riprese
estemporanee, prende corpo una sorta di pendolarismo narrativo che
ha il ritmo e le cadenze di un brano di musica jazz. Denso di vibrazioni,
di rigurgiti e improvvisazioni, di comparse e protagonisti, di fili
rossi di cui si segue il percorso come una pista nel deserto, o un
fiume carsico che riemerge e riaffonda assecondando il terreno e le
sue asperità.
Ma ciò che unifica e accorda le molteplici parti della narrazione,
lo strumento musicale che ha dettato il tema e ne tiene le fila, è
l’ironia del burattinaio, il suo tono teneramente sarcastico
che dietro il suo burbero agnosticismo lascia intravedere una comprensione
tanto sincera quanto disincantata per quelle piccole donne, quei piccoli
uomini incerti e spauriti dei quali ha deciso di attraversare la vita.
Maria Luisa Caffarelli