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Memorie dell'Accademia Urbense


Mario Canepa, StorieStorte, Memorie dell'Accademia Urbense (nuova serie) n. 36, Ovada 2001, 200 pp
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CRONISTA DI BIANCA E DI NERA
Una storia senza fate, senza dei, senza demoni e senza angeli, senza vittime e carnefici non sa di niente. Tutti abbiamo preferito nella Commedia l’Inferno al Paradiso. Le storie nascono solo quando qualcuno sale sulla nave dei folli, la donna si scopre malafemmina, l’uomo diventa bandito quando la passione, lungi dal temperarsi in quieta e serena pacificazione, diventa bruciante e distruttiva. Se non altro perché poi arrivano rimorsi e sensi di colpa a dare significato a vite altrimenti vuote e fangose.
Per le storie che in questo senso sanno di qualcosa esiste un grande baule inesplorato che dorme negli archivi anziché nelle soffitte: sono i documenti d’epoca, i verbali dei processi, le visite pastorali e - dall’Ottocento - le cronache dei giornali, soprattutto quelli di provincia, dove giacciono silenziosi i nostri grandi fratelli immobili: nobili monsignori che erano serial-killer e sono rimasti impuniti, Medee di campagna, oppure gente cattiva, cornuta, crudele, magari solo volgare o meschina, che ha bruciato la propria esistenza nell’attimo in cui ha infranto la legge salendo agli onori della cronaca nera, pirandellianamente fissata in quel gesto, marchiata come untore che mette a repentaglio la tranquilla vita borghese del borgo alla quale ha dato, per un attimo una scossa, un frisson di quelli che tranquillizzano perché fanno sentire bene in quanto estranei al male che vediamo concretizzarsi in altro da noi.
Poi, dopo un tempo che la giustizia può impegnarsi, spesso riuscendovi, ad allungare ma non può rendere eterno, quegli uomini e quelle donne si inabissano come tutto nel marecartaceo dell’oblio. In paritaria compagnia con quei tanti che i giornali hanno sfiorato registrandone nozze e decessi, piccoli incidenti domestici, allegre comunioni, anniversari di matrimoni, involontari sketch on the road che sono poi il pane del cronista di bianca.
Che fine hanno fatto decine, centinaia di piccoli omicidi, di meschini rapinatori, di mediocri stupratori che hanno dato, per qualche tempo, fiato alle pagine bianco nere dei fogli di provincia?
La letteratura, invece, allunga la vita, la vita degli eroi, ma anche quella degli sbandati, dei déraciné, degli untorelli di quanti, per sorte, capitano sotto lo sguardo famelico di scrittori curiosi.
Ne sanno qualcosa Honoré de Balzac, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri che hanno pescato a piene mani in quel mare da cui sono uscite storie che sono ancora vive e fresche, come nuove.
Ne sapeva qualcosa, per inciso, Henri Beyle Stendhal, il quale fece copiare negli archivi del Vaticano quattordici volumi in folio dai manoscritti di decine di processi celebri e di avventure scandalose della corte papale e d’Italia, raccolta in parte sfruttata dall’autore per le sue storie italiane, ma ancora ricca di spunti tanto che qualcuno cercò dopo la morte dell’autore della Certosa di Parma di venderla ad Alessandro Dumas, il quale, riferisce Sciascia, la rifiutò sdegnoso, forse dicendo “Quando ho bisogno di una cronaca italiana me la invento”.
Ne sa qualcosa Ceronetti, che ha appena dato alle stampe La vera storia di Rosa Vercesi e della sua amica Vittoria.
Ne sa qualcosa Mario Canepa, autore di queste StorieStorte, romanzo, saggio di sociologia o di storia minore, testo corale, occasionato da un proverbio e dilatatosi in affresco collettivo in cui, a tratti, il privato autobiografico dell’autore si intreccia - non si irriti l’autore per il complimento, saràl’unico - con rara sapienza scrittoria alla trama fitta eppure ortogonale dei mille fatti e avvenimenti che la sua Ovada ha visto scorrere nel torrente mutante della sua lunga umana commedia.
L’asse temporale lungo il quale si snodano quelle vicende è come la traccia del sismografo: il passato remoto scavalca i secoli e balza invadente nell’oggi, trascinandosi appresso medaglioni di passato recente e tra flash-back, rimandi, andate, ritorni e riprese estemporanee, prende corpo una sorta di pendolarismo narrativo che ha il ritmo e le cadenze di un brano di musica jazz. Denso di vibrazioni, di rigurgiti e improvvisazioni, di comparse e protagonisti, di fili rossi di cui si segue il percorso come una pista nel deserto, o un fiume carsico che riemerge e riaffonda assecondando il terreno e le sue asperità.
Ma ciò che unifica e accorda le molteplici parti della narrazione, lo strumento musicale che ha dettato il tema e ne tiene le fila, è l’ironia del burattinaio, il suo tono teneramente sarcastico che dietro il suo burbero agnosticismo lascia intravedere una comprensione tanto sincera quanto disincantata per quelle piccole donne, quei piccoli uomini incerti e spauriti dei quali ha deciso di attraversare la vita.


Maria Luisa Caffarelli